Esistono due norme, che sanciscono due diritti, quasi, contrapposti.
Da un lato c’è l‘art. 1102 c.c. – dettato per la comunione ma pacificamente applicabile anche al condominio in virtù del rimando contenuto nell’art. 1139 c.c. – che disciplina il diritto dei condomini di utilizzare le cose comuni, stabilendo dei limiti a tutela del pari diritto di ciascuno.
Dall’altra l’assemblea, che, nel suo generale potere di gestione delle cose comuni, può disciplinarne l’uso e limitare il potere d’iniziativa individuale senza, però, mai comprimere il diritto individuale sulle cose comuni e/o di proprietà esclusiva.
Già solamente da questa breve esposizione si comprende come i due interessi possono essere forieri di contenzioso, se entrano in conflitto.
Si pensi al condomino che intende parcheggiare l’auto nel cortile ed all’assemblea che, in spregio alle esigenze del comproprietario, decida per il mutamento della destinazione d’uso. La regolamentazione dell’uso, poi, può imporre dei limiti anche in relazione al decoro dell’edificio: si pensi al divieto di utilizzazione di alcune parti comuni, ad esempio al divieto d’installazione di targhe e insegne particolarmente grandi, finalizzato a caratterizzare l’estetica dell’edificio.
Le delibere che disciplinano l’uso delle cose comuni, meglio quelle riguardanti la misura ed la modalità d’uso dei servizi di condominio di case (così dice l’art. 7 del codice di procedura civile), possono essere sempre impugnate davanti al giudice di pace.
Passando dal generale al particolare, vale la pena segnalare una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 27333 del 4 dicembre 2013, relativa all’uso di una corte comune.
Nel caso di specie un’assemblea aveva vietato, ai condomini proprietari dei piani terreni, l’apertura di varchi sui muri al fine d’impedire gli ingressi diretti alle unità immobiliari di questi ultimi direttamente dalla corte condominiale.
Questione di decoro e comunque di disciplina dell’uso dei beni comuni, secondo la maggioranza. I condomini interessati non ci stavano e impugnavano la delibera in quanto a loro modo di vedere violava l’art. 1102 c.c.
In primo e secondo grado gli attori si vedevano data ragione. Gli altri (i condomini convenuti) proponevano, quindi, ricorso per Cassazione: a loro modo di vedere i giudici stavano sbagliando, tutto era stato deciso in modo pienamente regolare.
Gli ermellini gli hanno dato ragione. Si legge in sentenza che nel caso di specie “ non trova applicazione l’art. 1102 c.c., il quale svolge una funzione sussidiaria (ovvero opera nella sola eventualità in cui non sia intervenuta una differente regolamentazione in sede condominiale). Infatti, a tal scopo, deve affermarsi che – secondo la condivisibile giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 2369 del 1971; Cass. n. 1600 del 1975; Cass. n. 2727 del 1975 e Cass. n. 3169 del 1978) – l’art. 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne lo stesso uso secondo il loro diritto, non pone una norma inderogabile, ragion per cui i suoi limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale o dalle apposite delibere assembleari adottate con i “quorum” prescritti dalla legge.
L’unico limite della legittima “autodisciplina condominiale” è rappresentato dalla previsione del divieto sostanziale di utilizzazione generalizzata delle parti comuni; nel caso in cui, invece, l’assemblea condominiale (con le prescritte maggioranze) adotti una delibera che vieti soltanto un uso specifico (come quello, dedotto nella fattispecie oggetto della controversia, attinente alla sola apertura di nuovi accessi nel muro comune), la stessa deliberazione deve ritenersi legittima (v., per un esempio analogo, Cass. n. 2904 del 1976) e, pertanto, la Corte di appello non avrebbe potuto ritenerla invalida” (Cass. 4 dicembre 2013, n. 27233).
Fonte: Condominioweb.com
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